Un segno speciale del mese di ottobre è quello della missionarietà della Chiesa. Nella diocesi di Rieti, grazie all’impegno del suo centro missionario, il periodo è sempre caratterizzato da vivacità. Negli anni passati sono anche giunti missionari invitati nelle parrocchie per animare la Giornata mondiale, offrendo ai fedeli la testimonianza del proprio servizio. A pensarci, però, i volti della missione sono molteplici. Alcuni abitano nella Chiesa locale tutto l’anno: sono i sacerdoti stranieri che vivono il proprio ministero nelle nostre parrocchie.
A Rieti – fra quelli direttamente ordinati qui o successivamente incardinati nel clero locale, i “fidei donum” (preti “in prestito” per alcuni anni dalle diocesi di provenienza), studenti che si trovano qui per perfezionarsi presso le università pontificie romane e al contempo aiutano in diocesi, più alcuni religiosi – compongono all’incirca la metà del presbiterio e sono mediamente più giovani dei confratelli italiani. A volte il loro impegno è in città, più spesso nei piccoli centri. Provengono da tutti i continenti, ad eccezione dell’Oceania. Gli europei arrivano tutti da Est: Polonia (il gruppo più numeroso), Romania, Repubblica Ceca; gli africani da Congo, Nigeria, Madagascar, Ruanda e Gabon. India e Sri Lanka piantano la bandierina dell’Asia mentre dall’America Latina giungono peruviani, brasiliani e venezuelani. Un piccolo spaccato di mondo in casa che racconta l’universalità della Chiesa.
La presenza dei sacerdoti stranieri ha un alto valore culturale e pastorale. Spesso affrontano un cammino missionario inverso rispetto a quello tradizionale: non portano la fede dall’Occidente alle terre lontane, ma testimoniano il Vangelo in un contesto cristiano che affronta le sfide della secolarizzazione e della multiculturalità. Il loro arrivo compensa la carenza di vocazioni locali – inutile nasconderlo – ma allo stesso tempo arricchisce la diocesi di uno sguardo eccentrico: un aiuto a pensare in termini meno provinciali, nella speranza che la novità non si inabissi troppo presto, normalizzata da resistenze e abitudini. «La presenza di un sacerdote in parrocchia dice innanzitutto la presenza di Gesù buon pastore», spiega don Robert Kasereka Ngongi, direttore del Centro missionario diocesano, senza nascondere che a volte l’arrivo di un prete straniero può urtare la sensibilità dei parrocchiani. «La diversità mette alla prova le abitudini consuete e pone una sfida a entrambe le parti».
Gli ostacoli da superare sono ovviamente legati alla lingua, alle differenze culturali, ai pregiudizi. Come i parrocchiani, anche il sacerdote straniero è spesso spaesato e può soffrire per l’inserimento in un contesto diverso da quello abituale, sia in termini di tradizioni religiose che di dinamiche sociali. L’incontro richiede un impegno da parte di tutti, ma i frutti sono evidenti: «Il superamento delle diffidenze porta a gustare la cattolicità della Chiesa», spiega infatti don Robert. Un arricchimento che va letto anche nella crescente complessità della comunità locale, che non vede arrivare da fuori non solo i sacerdoti, ma anche i fedeli. «L’immigrato che incontra un sacerdote straniero in parrocchia si sente più velocemente a casa, riesce ad integrarsi più facilmente nella comunità di accoglienza. Il prete diventa un segno di unione per tutta la comunità».
«La reciprocità e lo scambio culturale sono il frutto maturo di un cammino interiore che porta ad accogliere il “diverso” come una presenza di Dio», prosegue don Robert pensando all’immagine di Abramo che ospita gli stranieri nella sua tenda. I sacerdoti stranieri spesso provengono da realtà ecclesiali molto vivaci, dove la fede è vissuta con grande intensità e impegno, e questo può contribuire a rinnovare il fervore delle comunità in cui operano. Non sono semplici “tappabuchi”, ma una ventata dello Spirito Santo che porta nuove energie e metodi di evangelizzazione. E oltre al servizio pastorale quotidiano, potrebbero assumere anche una responsabilità vocazionale perché «le loro esperienze di fede, spesso maturate in contesti di sofferenza, guerra o povertà, possono essere una testimonianza viva per i giovani italiani, testimoniando la capacità di vivere affidandosi completamente a Dio».
I sacerdoti stranieri sono dunque un dono prezioso. Contribuiscono a mantenere viva la presenza sacramentale e pastorale, a testimoniare un Vangelo incarnato nelle diverse culture, ad aprire uno spiraglio nelle finestre delle sacrestie. «Il vescovo Vito – ricorda don Robert – ha apprezzato l’incontro con i sacerdoti stranieri nella fase di ascolto del cammino sinodale e ha espresso il desiderio che questa esperienza di reciprocità tra sacerdoti che provengono da Chiese diverse si intensifichi». Del resto, a pensarci, il servizio di questi parroci venuti da lontano è semplicemente un esempio di quella “Chiesa in uscita” auspicata da papa Francesco: una Chiesa che non si chiude su sé stessa ma si apre all’altro, riconoscendo nella diversità una risorsa per il cammino comune verso il Regno di Dio.